Agopuntura in India

Gennaio 2015

Volontariato con agopuntura in India, tsunami 2004-Calcutta 2014: percezioni e spunti

Già dai primi istanti, quando entri per la prima volta a Kalighat, immediata e inaspettata ti coglie la chiara dicotomia tra situazione e percezione. Sei in una delle case del morire, eppure vi si respira la vita, la si sente, la si palpa. La Beata Madre Teresa lo ricorda in ogni modo, in ogni quadro, in ogni gesto, in ogni istante, ancora oggi, sempre, la morte è il ritorno alla casa del Padre.

La morte è dunque il ritorno a casa, è il percorso che si compie e si attua, non può che essere così. Morire non è ineluttabile e ingiusta tragedia, ma compimento della vita, è la chiusura del cerchio, il ritorno all’origine.

Madre Teresa lo insegna a tutti, ora lo insegna anche a me. Preghiere, sorrisi, cure, carezze aiutano i malati a compiere quest’ultimo passo, con semplicità, accoglienza e amore.

I degenti sono donne e uomini, talvolta ragazzi, gravemente malati ma sereni, di cui ti colpisce il netto contrasto tra la loro anima ben radicata e stabile, che ben si esprime nei loro sguardi vivi e nobili, ed il loro corpo così carente di radici, privo com’è dell’elemento terra, la carne.

In altri luoghi di malattia, non vieni permeato dalla stessa aria di pace. Qui, nella prima casa fondata da Madre Teresa, chi si avvicina al morire attua un percorso e lo sa. Le sue radici animiche, prossime a lasciare il corpo, attecchiscono oramai in larga parte al cielo, ne sono connesse ben più che alla terra.

Non è accettazione della morte la loro, non vivono passivamente la malattia perché è il loro destino e così non si curano e non lottano, come noi europei da qui tanto spesso pensiamo, loro sanno che il cerchio deve concludersi, che tutti dobbiamo percorrere appieno il nostro cammino e vi si preparano e accolgono il cielo che prende sempre più spazio in loro. Pian piano lo diventano, cielo, pian piano vi si riuniscono e sono tutt’uno, cielo.

In altre parti dell’India non è così, nemmeno lo è negli ospedali. A Calcutta ne ho visitati due, in tutto normali, in tutto simili ai nostri, mancava quell’aria di pace.

Non è stato così mai, nemmeno per un istante nell’Ospedale delle Suore di Maria Ausiliatrice a Velankanni, un paesino dell’India del Sud, nel Tamil Nandu, dove sono stata a prestare il mio piccolo aiuto dopo la tragedia dello tsunami del 2004. L’onda si era mangiata la costa, le case, le madri, i padri i figli e i nonni, le suore in preghiera. I fiumi improvvisamente rigonfi si sono portati via interi villaggi, bestiame, campi coltivati, interi raccolti. Si respirava la morte. I vivi parevano morti. Gli occhi velati di nulla e dolore. Qui il cerchio non si è compiuto, il percorso stroncato, tranciato, strappato.

Le suore mi hanno accolta con gioia e preoccupazione, gli altri medici erano fuggiti, in ospedale ora c’ero io e la dottoressa Chandralega al mattino. Dall’Italia mai lo avrei immaginato, non me l’hanno detto, non lo sapevo. Ogni momento si correva su in cima, lassù sul tetto dell’ospedale per scampare alla seconda onda tanto annunciata e mai giunta. Le suore pregavano, avevano paura, giustificavano il cataclisma con una dovuta punizione divina causata dalla lassità del comportamento umano, dagli errori, dalla perdita dei principi, dal gioco, dall’alcool, dalla prostituzione incipiente. Dio ci stava punendo, non restava che pregare e sperare e provare a salvarsi.

Le strade erano pervase da muri di legno con appese le foto di corpi inermi e stravolti, l’intento vescovile era di permettere ai famigliari sopravvissuti di cercare i dispersi per smettere di aspettarli fissando il mare.

Quante famiglie ho visto sedute lì, nell’immobile attesa di veder spuntare un saluto, uno sguardo, un fratello, un amico.

Il dolore penetrante alle fosse comuni di grandi e piccini. La fatica di ripartire con scuole e supporti, limitare i suicidi, accogliere gli orfani. Lì mai ho visto accettazione, disperazione soltanto. Quelle tante persone non erano pronte a morire, i loro parenti non si aspettavano di restare soli. Dopo un mese ero felice di tornare a casa, difficile dirlo, era duro e opprimente, soffocante, faticoso abituarsi.

L’incomprensione disperata di grandi e piccini, i loro pianti, le cefalee, il panico, il dolore acuto della mancanza. No, il cerchio era stato spezzato, stroncato, restava solo il dolore. Questo alle case di Madre Teresa, alle case della Morte, non c’è, lì c’è la vita. Lì c’è la richiesta palesemente espressa delle suore di non dare energia ai pazienti, di non deviarne il percorso ma di limitarsi ad alleviarne le pene.

A Velankanni, centro di preghiera, meta di pellegrinaggio, luogo sacro, ai tempi dello tsunami si era schiacciati dall’oppressione, dal fiato corto, dal respiro incompleto per la difficoltà di espandersi alla vita. In ambedue i luoghi, Calcutta e Velankanni, la delicatezza estrema di corpi e menti richiede attenzione nella cura. Le situazioni sono agli estremi, a Kalighat corpi estremamente defedati ma animi orientati in un percorso, radicati, a Velankanni menti annientate, paralizzate dal dolore e corpi malati ma su una struttura sana, su costituzioni robuste. Per queste polarità opposte un’identica via di cura, pochi aghi. Mai esagerare, così come possono stare male con poco, queste persone possono anche guarire con poco, pochi punti, un’unica via da seguire, con semplicità e chiarezza.

Inaspettati i risultati. Patologie gravi che non siamo abituati a trattare con agopuntura miglioravano in breve, talvolta in maniera sostanziale. Più di tutto mi ha colpita lo stabilizzarsi delle labilità emotive, il netto miglioramento delle ferite infette, dei dolori, degli edemi e delle malattie sistemiche.

Lo Tsunami è la terra che da Madre diviene assassina e ti mangia, ti porta via, chi resta, chi sopravvive non ha più le radici in essa, non c’è più quella terra salda e sicura che nutre ed accoglie. Ma le radici dei sopravvissuti non sono nemmeno ancorate lassù nel cielo come pare accadere ai degenti delle case di Madre Teresa, sono annodate in se stesse.

Il blocco energetico è immediato, ostruente, paralizzante, destabilizzante. Anche a Kalighat c’erano persone con il mentale alterato, ma anche in queste non vi era panico, terrore, sfinimento. Erano comunque individui in cammino su un percorso. A Kalighat le alterazioni del mentale erano spesso croniche, a Velankanni acute, così come era il dolore, improvviso, imprevisto, lancinante.

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